Emissioni Nox al 110%: L’altra faccia dell’Europa

smog emissioni auto

Mentre l’Ocse lancia l’allarme per l’aumento di morti a causa delle polveri sottili e si diffondono gli scandali sui test per evadere i controlli sulle emissioni delle auto, arriva la notizia che il Parlamento Europeo ha approvato la proposta della Commissione di aumentare le soglie consentite ad inquinare. Nonostante i considerevoli allarmi avvertiti e valutati dall’Agenzia Europea per l’Ambiente, il PE ha deciso di approvare questa modifica, causando un dibattito politico e sociale enorme. Da una parte, il fronte composto dal centrodestra dove eurodeputati di Forza Italia e Lega Nord, hanno votato a favore; dall’altra, il fronte ecologista (composto non solo dai Verdi ma anche dagli eurodeputati penta stellati e membri del PD) che ha avviato un’immediata mobilitazione proponendo una mozione contro il regime provvisorio adottato. Ovviamente quest’azione non è riuscita a fare una breccia in un Parlamento che, ora più che mai, sembra essere controllato dagli interessi economici delle grandi lobby.

Cosa cambia ora? Rispetto al Regolamento Europeo del 2007 che stabiliva per i veicoli Euro 6 il limite di emissioni di ossidi di azoto pari a 80 milligrammi per chilometro, con la nuova normativa il limite è stato più che raddoppiato. Inoltre, i test non verranno più eseguiti in laboratorio ma bensì sul campo, ovvero su strada. Quali le conseguenze? Prima di tutto sulla salute. Gli ossidi di azoto (Nox), originati dalla combustione, se in contatto con gli idrocarburi volatili (come ad esempio vernici o benzina) provocherebbero infatti danni all’apparato respiratorio, dando origine a tosse, irritazioni, bronchiti, polmoniti e asma.

Il nuovo regolamento che dovrà durare fino al 2017, per questo definito «provvisorio», sembra essere del tutto contrario all’atteggiamento finora mostrato dall’Unione Europea, la quale si è sempre mostrata impegnata nella tutela dell’ambiente, facendo di questo un obiettivo di primo ordine. Ora, questo cambiamento di rotta, a causa forse della pressione delle lobby automobilistiche, potrebbe far pensare ad un diverso atteggiamento dell’Unione nei confronti dell’ambiente.

L’Ue negli anni passati ha mostrato un forte impegno nella tutela dell’ambiente e nel contrasto al riscaldamento globale, sia attraverso la sua presenza durante le conferenze internazionali (COP Unfccc) sia attraverso la sua politica ambientale che risale al 1972.

L’UE ha siglato il protocollo di Kyoto (sottoscritto nel 1997 ma entrato in vigore nel febbraio 2005), il quale impegnava le parti a ridurre quantitativamente le emissioni di gas ad effetto serra attraverso un sistema di monitoraggio delle emissioni da aggiornare annualmente, insieme alla definizione di misure al fine di ridurre le emissioni stesse. In seguito, l’UE ha partecipato a tutte le altre conferenze internazionali sul clima (le cosiddette COP-Conferenze delle Parti-, nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici); conferenze che però non hanno portato a risultati significativi. Nel dicembre del 2009 c’è stata la Conferenza di Copenaghen (COP15) che ha lasciato grande delusione in quanto non si è riusciti a raggiungere alcun accordo. Anche la seguente conferenza di Cancun (COP16 del dicembre 2010) non è riuscita a dar vita ad un’azione coordinata tra gli Stati partecipanti per contrastare il cambiamento climatico; allo stesso modo tale obiettivo è fallito anche con la recente Conferenza di Durban (COP17 del dicembre 2011) e con le seguenti. E l’ultima COP21 di Parigi? Se prendiamo in considerazione la dichiarazione del noto climatologo statunitense James Hansen alla conclusione della Conferenza, il quale ha definito l’accordo una «truffa» in quanto contiene «solo promesse e non azioni», potremmo dire che nemmeno la COP21 di Parigi ha fatto grandi passi in avanti in tema di riduzione delle emissioni. L’accordo infatti, sembra essere insufficiente rispetto agli obiettivi di tutela del clima dallo stesso individuati, non è vincolante (o almeno non in tutte le sue parti) e non entra in vigore nell’immediato. Tuttavia, è bene sottolineare gli aspetti positivi che sono emersi da quest’ultima Conferenza delle Parti. In primo luogo, può esser definita come la migliore dopo Kyoto, inoltre l’accordo coinvolge un numero elevato di nazioni (193 paesi) e quindi è ampiamente condiviso a livello mondiale, e le parti si sono impegnate a mettere al centro delle loro azioni la promozione delle fonti energetiche rinnovabili. Sono cinque i punti chiave dell’accordo: il riscaldamento globale, l’obiettivo di lungo termine sulle emissioni, loss and damage (viene stabilita la destinazione di fondi ai paesi vulnerabili), i finanziamenti e la trasparenza.

Tuttavia, l’Unione Europea con la decisione di aumentare il limite delle emissioni sembra andare in senso contrario alla direzione del summit internazionale contro i cambiamenti climatici. La COP21 è apparso come un mero evento internazionale che ha raccolto una visione idealistica di collaborazione su un piano delicato e sempre più problematico; cooperazione dalla quale l’UE si è discostata per privilegiare gli interessi economici delle lobby.

L’UE si è impegnata a livello ambientale anche attraverso la sua politica che si applica ai soli 28 stati membri. La sua azione in tale ambito risale al Consiglio Europeo di Parigi tenutosi nel 1972, in occasione del quale i capi di stato e di governo hanno dichiarato la necessità di dar vita ad una politica europea sull’ambiente. In seguito, l’Atto Unico Europeo del 1987 ha introdotto un nuovo titolo, «Ambiente», che ha fornito la prima base giuridica per una politica finalizzata a salvaguardare la qualità dell’ambiente, a proteggere la salute umana e a garantire un uso razionale delle risorse naturali. Le successive revisioni dei Trattati hanno rafforzato l’impegno europeo così come il ruolo del Parlamento Europeo in tema di ambiente. Il Trattato di Maastricht (1993) ha introdotto la procedura di co-decisione e il voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio; il trattato di Amsterdam (1999) ha introdotto l’obbligo di inserire la tutela dell’ambiente in tutte le altre politiche settoriali dell’Unione, al fine di favorire uno sviluppo sostenibile; con il Trattato di Lisbona (2009) infine, l’obiettivo di “combattere i cambiamenti climatici” è stato messo al centro della discussione politica, così come il perseguimento dello sviluppo sostenibile nelle relazioni con i paesi terzi.

La volontà di perseguire un’azione a tutela dell’ambiente si è manifestata inoltre con l’ultima programmazione «Europa 2020», tra i cui obiettivi vi è proprio il clima e l’energia. Questa strategia si basa sulla crescita sostenibile (oltre che innovativa e intelligente) dove la diminuzione delle emissioni a tutela dell’ambiente è un punto essenziale. L’UE, infatti, si impegna a ridurre del 20% le emissioni di gas serra rispetto al 1990, a ricavare il 20% del fabbisogno energetico da fonti rinnovabili e ad aumentare del 20% l’efficienza energetica.

In conclusione, l’aumento delle emissioni, risulta essere più che contraddittorio. In accordo con la crescita sostenibile, cosa ci può essere di sostenibile ad innalzare il limite consentito delle emissioni? Forse in questo caso il concetto di sostenibilità è stato applicato alle case automobilistiche e ai rigidi interventi che avrebbero dovuto trovare applicazione. Questo episodio, infatti, è stato considerato come una sanatoria nei confronti del dieselgate e come un grosso favore alla Merkel. Quando la via illegale non è più possibile occorre, allora, legalizzare, cambiando la regolamentazione.

Ebbene, come spiegare allora il comportamento delle istituzioni europee a favore di un aumento delle emissioni di azoto nell’aria, in luce di questi forti impegni che vanno in senso opposto? Un’ennesima contraddizione nell’azione europea che richiede spiegazioni e un ulteriore episodio che conferma le criticità dell’Unione Europa facendola risultare distante dall’Unione ideale che dovrebbe essere. Un sistema politico comandato dalle lobby, da interessi economici e dagli Stati Membri più forti. Siamo arrivati in un momento in cui, le decisioni europee che esplicitamente vanno contro gli obiettivi programmati, risultano lo stesso giustificate e legittimate. Ma quando questo accade, si mette in discussione l’identità stessa dell’unione.

Elena Ceretta

Giovanni Simonato

Inno europeo o una melodia da suonare occasionalmente?

europa e inno

Pace, libertà e solidarietà sono gli ideali (alcuni difficilmente perseguiti) dell’identità europea. Questi valori vengono trasmessi dai simboli comuni (bandiera, inno…) il cui scopo è quello di creare l’identità e il senso europeo.

L’Unione europea è provvista di un inno, infatti, all’indomani del vertice di Milano e della rinnovata spinta al processo d’integrazione europea prodotta dall’Atto Unico Europeo, il Consiglio Europeo adotta l’Inno alla Gioia come Inno dell’Unione Europea. Quest’inno è tratto dalla Nona sinfonia di Beethoven del 1823, ma steso da Schiller nel 1785. Il compositore, aveva appositamente caricato la melodia di una valenza molto forte. Questa, infatti, comunica la visione idealistica di fratellanza fra gli uomini. Ed è proprio per questo motivo che è priva di testo, per poter comunicare lo stesso messaggio secondo un linguaggio unico, quello della musica.

L’inno dell’UE, come qualsiasi altro simbolo europeo, non mira a sostituire quelli nazionali anche perché un’azione di questo tipo sarebbe in contrasto con uno dei principi fondamentali dell’Unione Europea. L’inno alla Gioia va ad aggiungersi ai rispettivi inni nazionali, come per le bandiere, come per la cittadinanza, al fine di celebrare i valori che i 28 Stati condividono. Noi italiani siamo cittadini dello Stato Italiano ma, anche, cittadini europei. Tuttavia l’utilizzo dell’Inno in questione è veramente limitato a eventi ufficiali delle istituzioni europee. Perché manca un’adeguata diffusione, considerando la funzione principale di questo simbolo comune? Dai primi anni 2000, il sentimento europeista scema sempre di più, in favore di un “Euroscetticismo” sempre più rafforzato. Ovviamente questo cambiamento fu prodotto in seguito alla realizzazione dell’Unione Economico Monetaria e dei relativi sacrifici effettuati. Tuttavia, molte volte si è denunciata la carenza di una identità europea, del sentirsi europei. Camminando per i centri storici italiani (ma anche europei), in prossimità delle istituzioni locali, si stagliano sempre (e come minimo) due bandiere (per legge): quella italiana e quella europea. Già un primo passo verso il sentirsi europei è stato realizzato. Ma perché questo non si attua anche con l’Inno europeo? Perché prima di una partita di calcio, in uno stadio, l’Inno alla Gioia non viene suonato, soprattutto se sono due squadre europee a competere? Perché nelle cerimonie ufficiali nazionali, quest’inno non viene suonato dopo quello nazionale, dato che siamo italiani, ma anche europei? I costi della prima e della seconda guerra mondiale sono stati condivisi dagli stati europei. L’olocausto e tutte le conseguenze del Nazismo sono state vissute da tutti gli Stati europei. I ventotto stati, non hanno condiviso solo semplice storia, ma un’identità simile che ovviamente nel corso degli anni ha trovato ventotto vie diverse, ma con delle radici comuni.

Sebbene sia passato più di un mese dalla giornata della memoria, sono in dovere di raccontare un episodio. Da un diretta testimonianza di un sopravvissuto, l’Inno alla Gioia gli ha salvato la vita! Un prigioniero, suonando con un clarinetto, quello che sarebbe diventato l’Inno europeo, è riuscito a sopravvivere ai campi di concentramento, per il mero fatto che allietava le truppe naziste. Questa melodia ha per questo sopravvissuto un valore incommensurabile. Molti cittadini europei non sanno nemmeno che esista un inno comune per i ventotto paesi, mentre sanno dell’esistenza di una bandiera comune.

Ridurre a suonare quest’inno in occasione delle cerimonie ufficiali delle istituzioni europee, non permette una efficace trasmissione dei valori propri della bandiera a ventotto stelle ai cittadini europei. La mancanza di far risuonare quest’inno al pari di quelli rispettivi di ogni Stato, rappresenta un’enorme buco che, in parte, va a spiegare la mancanza di quel “non sentirsi” europeo e di un senso europeo debole. “Siamo italiani, ma anche europei”. Un concetto che rischia di non essere adeguatamente perpetuato e applicato, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni.

Frammentazione e cooperazione comunale

L’individualismo amministrativo costruisce barriere verso la cooperazione funzionale non permettendo al territorio di crescere, così aumentano i “costi” della frammentazione.

di Giovanni Simonato

Il territorio italiano è affetto da un’endemica crisi non solo quantitativa ma anche dimensionale di enti comunali. Il problema della frammentazione comunale ha riguardato l’Europa intera e ancora oggi alcuni paesi ne sono gravati (Spagna, Francia, Italia, Rep. Ceca, Austria, Germania, per citarne alcuni). Già nel decennio passato, in Europa (in particolar modo nei paesi del Nord) si è sviluppata una tendenza di riordino territoriale che ha portato ad una drastica riduzione delle amministrazioni comunali ovviando così il problema al principio. Gli stati dell’Europa mediterranea, invece, non sono riusciti a procedere verso una linea così radicale, in particolar modo l’Italia che fino al 2010 è stato l’unico paese europeo che ha aumentato il numero degli enti comunali anziché ridurlo. Il territorio italiano oltre ad avere 8.057 unità comunali, il 70% di questi è di piccole dimensioni (fino a 5.000 abitanti) e di questi il 24,5% (1.382 comuni) sono definiti “Comuni polvere” (i quali hanno una soglia massima di abitanti pari o inferiore a 1.000).

L’elevata frammentazione produce di conseguenza una serie di conseguenze e di costi (evitabili). Infatti, le realtà comunali, chiuse in una morsa che va dalla crisi finanziaria alla spending rewiew, non riescono a provvedere ai bisogni e alle necessità dei cittadini, talvolta non riescono nemmeno a garantire gli standard qualitativi di vita raggiunti. Oltre all’incapacità di gestire i servizi ritenuti “scontati” vi è il problema dell’incapacità di erogarne di nuovi. La terza conseguenza, invece, riguarda l’aspetto dello sviluppo del territorio. Un comune, di piccole dimensioni con costi sempre più insostenibili e che fatica a erogare i servizi ai cittadini, come può permettersi di investire risorse al fine di contribuire allo sviluppo del suo territorio?

Questi costi e conseguenze sono condivise da tutti i paesi dell’Europa mediterranea come la Spagna con oltre 8.108 unità comunali e, in particolar modo, la Francia con i suoi 36.682 comuni, 95% dei quali di piccole dimensione mentre il 74% del totale sono “Comuni Polvere”. Tuttavia, un modo per risolvere le conseguenze prodotte dalla “polverizzazione” del territorio si concretizza nel sistema della network governance locale; un nuovo modello di organizzazione del territorio, delle relazioni, della gestione e dei processi decisionali, ma già sperimentato. Concretamente questo si realizza attraverso le reti intercomunali italiane (Unioni di Comuni), francesi (établissement public de cooperation intercommunal), spagnole (mancomunidades) e in altre forme in altri paesi europei. Sono tutte soluzioni simili dettate dalla logica della cooperazione e del fare rete dove la fiducia, l’interconnessione e la specializzazione sono i pilastri. Lo scopo di questo modello è quello dell’instaurazione di una fitta trama di relazioni tra soggetti pubblici e privati: rapporti interistituzionali, reti d’imprese che collaborano scambiandosi il know-how, accordi con il mondo universitario capace di offrire conoscenze e tecnologie sempre nuove e innovative. Un network di relazioni funzionali, flessibili e durature tra soggetti politici, istituzionali, economici, finanziari e professionali che permettono la crescita a lungo termine e l’aumento del livello di competitività territoriale. Queste reti intercomunali policentriche non permettono solamente la gestione associata dei servizi (in modo tale da ridurre i costi e realizzare economie di scala) ma rappresentano anche un’occasione per lo sviluppo di un territorio.

I dati statistici del 2015, dell’INSEE francese dimostrano che il 99,81% dei 36.682 comuni risulta essere inserito in una forma di cooperazione intercomunale (raccogliendo il 93,97% della popolazione totale), mentre l’Italia tra Unioni di Comuni e Comunità Montane raggruppa solo il 28,05% di comuni. Un enorme divario che penalizza la situazione italiana, causato da una politica quadro nazionale insufficiente, scarsa e debole e da una regolamentazione regionale diversificata e non sempre adeguata che per molti anni è stata incoerente con quella nazionale.

Attualmente con la “Riforma Del Rio” in vigore che obbliga la gestione associata per i piccoli comuni in una forma di cooperazione quale, l’Unione di Comuni o la Convenzione sembrerebbe avviare una nuova svolta nella cooperazione intercomunale. Bisognerà attenderne i risultati per vedere se realmente la riforma realizzerà una proliferazione di forme stabili di cooperazione secondo un modello di network governance locale policentrico.

Non siamo (più) una realtà industrializzata dell’UE

di Giovanni Simonato

Quando si parla di Blue Banana ci si riferisce all’area economicamente più sviluppata e più importante d’Europa che per molti anni, grazie alla sua conformazione, ha assunto proprio la forma del frutto in questione.

Fino al 2013 quest’area collegava la zona della “Grande Londra”, il Benelux e la Baviera, terminando nel Nord Italia capitanato da Milano. Si può dire quindi che l’Italia avesse un enorme vantaggio grazie al“rapporto diretto” con la zona economicamente più sviluppata d’Europa. » Read more