Il fascismo come fantasma dell’identità nazionale

palazzo civitltà italiana

di Alberto Ghiraldo

Spesso ci si chiede perché in Italia non sia possibile un sano patriottismo, come avviene nella maggior parte dei paesi occidentali.  Un genuino sentimento nazionale, tale da non sfociare in estremismi, è una risorsa imprescindibile per un popolo, dinnanzi a ogni sfida, comprese quelle dello sviluppo e della crescita economica. Non voglio però soffermarmi sugli effetti, ma indagare le cause che rendono il nostro Paese così diverso.

Essenzialmente è la paura: paura del passato, del fascismo e del suo duce. Questa è l’eredità più bruciante e deleteria del ventennio che mina ancora l’unità della nazione. Ciò è più che comprensibile: le disgrazie con cui culminarono quegli anni, avute con un’imposta ubriacatura patriottica, provocarono un rigetto verso ogni valore nazionale.

In Germania , però, ebbero di peggio:  il nazismo.
Eppure oggi è superato e non si teme una politica di potenza economica che tuteli esclusivamente l’interesse nazionale. Quindi se era comprensibile che nel 1950 Almirante scrivesse: «è innegabilmente fastidioso, oggi, essere italiano in Italia; è il mestiere più faticoso e meno redditizio. Puoi fare l’attivista rosso a buon mercato, con periodi garantiti di ferie a San Marino. Puoi fare l’anarchico. […] Puoi darti, indisturbato, alle piccole come alle grosse speculazioni. […]Puoi dedicare i tuoi ozi al banditismo: è un po’ scomodo, ma non molto pericoloso. Puoi fare lo sbirro, il falso obiettore di coscienza, il pederasta pubblico di Capri, il partigiano rapinatore di Dongo. Tutto; ma l’italiano no. Al massimo ti concedono di farlo con la i minuscola; ma guai se ti arrischi ad allungare l’iniziale. È finita: sei fascista, perdi il diritto alla parola, al lavoro, alla pensione, alla tutela dei tuoi diritti e della tua stessa esistenza, financo alla sepoltura.», meno comprensibile fu l’atteggiamento della nostra classe dirigente e di parte del Paese dinnanzi alla questione giuliana, agli esuli e ai martiri delle foibe.
Scrive lo storico Arrigo Petacco: «Qualsiasi timido riferimento alla difesa dei nostri confini veniva bollato come “rigurgito fascista” e “segni preoccupanti di risorgente fascismo” erano definite le manifestazioni tricolori dei triestini che anelavano di ricongiungersi alla patria… o meglio, al paese, perché perfino la parola “patria” era stata pudicamente sostituita con questo sinonimo meno impegnativo.» Così l’accoglienza che ricevettero gli esuli di Pola ebbe dell’incredibile: invece della fratellanza a chi, costretto all’esilio dopo aver perso beni, terre, amici e parenti infoibati e perseguitato per la sua italianità, vi fu disprezzo e diffidenza, aizzati da una propaganda comunista che definiva gli esuli come fascisti e vedeva invece Tito come fratello.

Ma ancora oggi, ogni qual volta vi sia la necessità di fare quadrato intorno alla Patria, è discordia. I marò sono di destra e fascisti e perciò, il segretario di Rifondazione comunista di Rimini si chiede su Facebook: “Non è ora che impicchino i due marò?” Ma la stessa classe dirigente è condizionata e teme di esporsi cosicché la questione è stata trattata con incredibile superficialità.

Allo stesso modo ogni qual volta si parli di forze armate, forze dell’ordine e missioni internazionali. Ora anche nell’inno, quel troppo forte «siam pronti alla morte», viene infaustamente stuprato.

È  ridicolo che ancora si speculi e si cerchi consenso in nome della contrapposizione a ciò che settant’anni fa venne appeso a testa in giù a piazzale Loreto, non si rendono conto che così facendo permettono al duce e al suo fascismo di perdurare nei secoli molto più di quanto faccia chi vorrebbe resuscitarlo? Quest’ultimi poi, anch’essi  ignoranti e complici nell’affossamento di idee che magari così vorrebbero difendere.

Non vi è PIL od occupazione che tenga fin quando non avremmo “fatto gli italiani”. Per questo è essenziale superare la paura del proprio passato, lo spettro del fascismo, senza dimenticare quel limite che non va oltrepassato.

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