Altro che Russia: l’incognita (e il pericolo) è la Cina

di Dario Rivolta* da notiziegeopolitiche.net

Ci sono avvenimenti nella politica internazionale che sembrano così irrazionali da far persino dubitare, a chi li osserva, che accadano veramente. Comunemente si pensa che sia legittimo per ogni Stato perseguire i propri interessi e, anche quando le azioni compiute da un altro non ci piacciono o non ci convengono, siamo portati a spiegarcele secondo la logica della ricerca del proprio profitto. Qualche volta, tuttavia, sembrano così irrazionali da far supporre che nascondano obiettivi meno evidenti o addirittura inconfessabili. Altre volte, anche le decisioni più profondamente pensate si riveleranno sbagliate e diventano controproducenti.
Abbiamo il dubbio che questo sia il caso dell’atteggiamento che gli Stati Uniti stanno tenendo nei confronti della Russia e dobbiamo confessare di non capire cosa vogliano ottenere, e perché.
E’ infatti a tutti evidente che oggi e per molto tempo nel futuro Mosca non potrà rappresentare nessun serio pericolo per i Paesi occidentali e tanto meno per gli americani. Non siamo più in un mondo bipolare e, nonostante i desideri di qualche nostalgico da una parte e dall’altra, l’Unione Sovietica è morta e sepolta. Eppure, negli Usa una retorica esagerata continua a presentarci il Cremlino come aggressivo, desideroso di espandersi a ovest o, addirittura, ambizioso di ricostruire una nuova “cortina di ferro”. Tralasciamo che gli unici atti aggressivi che si sono visti negli ultimi venti anni in Europa centro-orientale siano stati compiuti proprio dagli Usa (guerra alla Serbia, Kosovo, varie rivoluzioni “colorate”, Georgia e, per finire, due colpi di stato a Kiev) e pensiamo, invece, a chi sta veramente diventando l’unico possibile antagonista alla supremazia mondiale americana: la Cina.
Si tratta di un Paese enorme e di eccezionale cultura secolare e la sua popolazione, pur nelle alterne vicende della storia, ha continuato a percepirsi come “il centro del mondo”, l’Impero di Mezzo. I momenti in cui forze straniere hanno occupato i suoi porti e spadroneggiato per le città è sempre stato vissuto come un’ingiustizia, necessariamente temporanea, e gli occupanti restarono comunque, nella mente del cinese comune, degli esseri inferiori.
A differenza di come fanno solitamente i nostri, la caratteristica importante dei politici cinesi è quella di compiere scelte guardando sempre a un orizzonte temporale di almeno cinquant’anni e, per capire dove vogliano veramente arrivare, non ci si può limitare a notare singoli atti o momenti, bensì occorre decifrare le loro mosse in tutto il loro insieme.
Da quando è stato lanciato il cosiddetto “socialismo di mercato” (ossimoro per: spazio all’iniziativa privata ma sotto il controllo predominante e totalizzante dello Stato) i leader di Pechino avevano subito deciso che, per poter avere un ruolo importante nel mondo, occorrevano molto denaro e l’acquisizione di tecnologie avanzate non ancora in loro possesso. Per raggiungere questi scopi intermedi erano indispensabili altre due condizioni: la disponibilità di materie prime per alimentare lo sviluppo industriale e un lungo periodo di pace con l’esterno.
La Cina si è allora concentrata contemporaneamente su tutti quegli obiettivi e ha cominciato col diventare innanzitutto la “fabbrica del mondo” a basso costo, accumulando così enormi riserve di valuta straniera. Ma non una moneta qualunque: soprattutto dollari e bond americani. Poiché l’economia Usa dal dopoguerra vive sul debito (la bilancia commerciale è costantemente deficitaria mentre la bilancia dei pagamenti è restata sempre attiva), l’acquisto del debito pubblico americano è stato benvenuto da Washington, ma ha legato strettamente il benessere dei suoi cittadini e i suoi conti anche alle decisioni di Pechino. In realtà anche per i cinesi è un’arma a doppio taglio ma, se non altro, obbliga i due a un dialogo su un piano di parità.
Mentre il Governo riempiva le casse, la diplomazia cinese teneva il Paese il più possibile estraneo a ogni crisi internazionale giocando un ruolo di understatement e approfittava di ogni difficoltà altrui per allacciare rapporti con Paesi ricchi di petrolio e di gas infischiandosene, a differenza di ciò che facevano i timorosi occidentali, di diritti umani, traffici di armi, droga e mancanza di democrazia. Un altro passo strategico importante è stato quello di acquistare all’estero, ove la poca densità di popolazione locale portava a considerarle di minore valore, grandi estensioni di terreno agricolo per garantirsi anche nella produzione di cibo.
Quasi in silenzio e comunque senza enfatizzarlo, si è cominciato, però, a investire anche nelle Forze Armate, ammodernandone la tecnologia, gli armamenti e la formazione. Si consideri che gli investimenti cinesi per marina, aviazione ed esercito sono passati dai 37 milioni di dollari del 2000 ai 171 milioni del 2013, rimanendo sempre al due percento del PIL ma con un Prodotto lordo cresciuto enormemente (una notizia, molto pericolosa se confermata, dice che la Cina sia oggi in possesso di testate nucleari multiple, cosa che sarebbe contraria agli accordi sulla non proliferazione nucleare).
In pochi anni, l’economia interna, grazie alle esportazioni e al generoso credito dato dalle banche (statali e non) è diventata la più grande al mondo, insidiando il primato degli stessi Stati Uniti. Poi, ha cominciato ad allargare gli orizzonti acquistando, per lo più tramite società statali, partecipazioni strategiche in tutti i Paesi occidentali. Non pago, il Governo ha cominciato a offrire finanziamenti a tutti i Paesi in difficoltà e certo non l’ha fatto con intenti solamente finanziari. Il risultato è che oggi i cinesi hanno voce in capitolo in molti Paesi del Sud America e in diversi Paesi asiatici. La crisi economica internazionale ha recentemente ridotto le loro esportazioni ma, in compenso, Pechino ha cominciato a spingere il mercato interno abbassando a più riprese i tassi bancari ufficiali e ciò nonostante gli enormi insoluti privati che infettano la finanza locale.
L’attuale stallo della crescita cinese sembra tranquillizzare alcuni studiosi americani, I quali sostengono che “…the RMB will then fall short of challenging the dollar and the dollar’s future as the world reserve currency will remain almost entirely in american hands…”. E ancora che “…a stalled China will be more a lost opportunity than a dangerous development for the U.S. economically” e che “ China began to wander off the market path in 2003 and has not yet returned. Unless it does, growth will halt by the end of this decade, regardless of what the government claims”
Tuttavia, a dispetto di alcune previsioni ottimistiche (per alcuni) sulla sua crescita o non crescita, Pechino ha cominciato negli ultimi tempi a mostrare altre intenzioni e cioè la volontà di espansione negli oceani Pacifico e Indiano. Oramai tutto lascia pensare che il target cinese non sia più soltanto quello di garantire un più alto tenore di vita per i propri concittadini ma, piuttosto, quello di assurgere a potenza globale.
Sono cominciati, infatti e per intanto, pericolosi contenziosi con Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam per isole e isolotti del cosiddetto Mar Cinese meridionale. Sicuri di reazioni non superiori a semplici proteste formali, la Cina ha iniziato a costruire infrastrutture e abitazioni su alcuni di quegli isolotti disabitati rivendicandone così la proprietà. Poco importa che altri Paesi reclamino anch’essi diritti su quell’area di oceano e che, stando alle carte, alcune di quelle stesse isole rientrino addirittura nelle dodici miglia nautiche dalla loro terraferma e, stando al diritto internazionale, siano di loro pertinenza. La stessa fonte di diritto stabilisce anche che, ove trattasi di isole stabili (e cioè non sommerse dalle maree), la zona economica di spettanza esclusiva si allarga fino a 200 chilometri dalla costa. Siamo quindi di fronte a evidenti atti ostili tanto che gli americani, sollecitati dagli alleati locali e come avvertimento ai cinesi, hanno deciso di mandare sopra quelle isole un aereo da ricognizione. La reazione è stata immediata: intimazione al pilota di allontanarsi perché entrato in una “zona militare”.
Proprio a causa di atti ostili sempre più numerosi, qualcuno negli Usa si rende conto che, nel migliore dei casi, “il rischio Cina” sia una possibilità: “…this mixed environment could evolve in some extremely negative directions over the next twenty-five years, involving more severe POLITICAL-MILITARY tensions and crises that eventually produce an Asian Pacific Cold War environment OR WORSE…”.
In politica internazionale, come già osservato altre volte, le variabili sono così numerose che è impossibile per chiunque prevedere esattamente cosa succederà a distanza di settimane o mesi. Tuttavia, sono troppi i segnali che lasciano trasparire le ambizioni di Pechino per escludere un possibile futuro scontro Cina – Stati Uniti (cioè occidente) per far finta di niente.
Torniamo allora alle nostre premesse: se la Russia è, oggettivamente, un gigante d’argilla e se il vero pericolo per l’attuale stabilità mondiale può venire dall’”Impero di Mezzo”, che senso ha l’ostilità che Usa, un po’ di Europa e la Nato continuano a praticare contro Mosca? E, di là dalle negative conseguenze per la nostra economia, perché farci nemico un Paese che rappresenta la più grande riserva al mondo di materie prime? Ma, soprattutto, poiché la crescita cinese e le sue possibili ambizioni neo-imperialistiche han bisogno di nutrirsi di tali materie prime per realizzarsi, perché obbligare i russi a orientarsi verso Pechino anziché stringerli il più possibile a noi?
Anche se il russo medio non ha mai amato i cinesi e, evidentemente, Mosca sarebbe solo il “minor partner” in un eventuale legame con Pechino, il venir meno di capitali occidentali e la nostra dichiarata ostilità stanno spingendo il Governo russo a dialoghi sempre più stretti, e senza potere negoziale, con la Cina.
A ogni osservatore imparziale il comportamento occidentale non può che sembrare cieco o addirittura masochistico e vien da dubitare della saggezza e lungimiranza di chi ne è responsabile. Salvo che lo scopo ultimo di ciò che si sta facendo in Ucraina e dintorni non sia qualcosa d’altro (pur restando di dubbia lungimiranza): destabilizzare la Russia, provocare la caduta di Putin e, nel caos che ne seguirà, favorire lo smembramento del Paese in tanti piccoli stati, sperando così di potersi impadronire direttamente delle sue ricchezze.
Nella testa di qualche politico magari esiste perfino questa pseudo-strategia. Ma forse, in questo caso, non si dovrebbe affatto parlare di “politici”: piuttosto di nuovi Dottor Stranamore. Si pensa all’instabilità mondiale che ne seguirebbe? Quali le conseguenze per le armi atomiche presenti? Chi e come ne garantirebbe la messa in sicurezza? Chi ne deciderebbe l’utilizzo? Purtroppo ancora oggi ricordiamo cosa stava succedendo ai materiali radioattivi durante gli ultimi anni semi-anarchici della presidenza Eltsin.
E’ mai possibile che i calcoli sbagliati, la superficialità e l’incompetenza dimostrate in Afghanistan e soprattutto in Iraq non abbiano ancora insegnato nulla?

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.

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