Inno europeo o una melodia da suonare occasionalmente?

europa e inno

Pace, libertà e solidarietà sono gli ideali (alcuni difficilmente perseguiti) dell’identità europea. Questi valori vengono trasmessi dai simboli comuni (bandiera, inno…) il cui scopo è quello di creare l’identità e il senso europeo.

L’Unione europea è provvista di un inno, infatti, all’indomani del vertice di Milano e della rinnovata spinta al processo d’integrazione europea prodotta dall’Atto Unico Europeo, il Consiglio Europeo adotta l’Inno alla Gioia come Inno dell’Unione Europea. Quest’inno è tratto dalla Nona sinfonia di Beethoven del 1823, ma steso da Schiller nel 1785. Il compositore, aveva appositamente caricato la melodia di una valenza molto forte. Questa, infatti, comunica la visione idealistica di fratellanza fra gli uomini. Ed è proprio per questo motivo che è priva di testo, per poter comunicare lo stesso messaggio secondo un linguaggio unico, quello della musica.

L’inno dell’UE, come qualsiasi altro simbolo europeo, non mira a sostituire quelli nazionali anche perché un’azione di questo tipo sarebbe in contrasto con uno dei principi fondamentali dell’Unione Europea. L’inno alla Gioia va ad aggiungersi ai rispettivi inni nazionali, come per le bandiere, come per la cittadinanza, al fine di celebrare i valori che i 28 Stati condividono. Noi italiani siamo cittadini dello Stato Italiano ma, anche, cittadini europei. Tuttavia l’utilizzo dell’Inno in questione è veramente limitato a eventi ufficiali delle istituzioni europee. Perché manca un’adeguata diffusione, considerando la funzione principale di questo simbolo comune? Dai primi anni 2000, il sentimento europeista scema sempre di più, in favore di un “Euroscetticismo” sempre più rafforzato. Ovviamente questo cambiamento fu prodotto in seguito alla realizzazione dell’Unione Economico Monetaria e dei relativi sacrifici effettuati. Tuttavia, molte volte si è denunciata la carenza di una identità europea, del sentirsi europei. Camminando per i centri storici italiani (ma anche europei), in prossimità delle istituzioni locali, si stagliano sempre (e come minimo) due bandiere (per legge): quella italiana e quella europea. Già un primo passo verso il sentirsi europei è stato realizzato. Ma perché questo non si attua anche con l’Inno europeo? Perché prima di una partita di calcio, in uno stadio, l’Inno alla Gioia non viene suonato, soprattutto se sono due squadre europee a competere? Perché nelle cerimonie ufficiali nazionali, quest’inno non viene suonato dopo quello nazionale, dato che siamo italiani, ma anche europei? I costi della prima e della seconda guerra mondiale sono stati condivisi dagli stati europei. L’olocausto e tutte le conseguenze del Nazismo sono state vissute da tutti gli Stati europei. I ventotto stati, non hanno condiviso solo semplice storia, ma un’identità simile che ovviamente nel corso degli anni ha trovato ventotto vie diverse, ma con delle radici comuni.

Sebbene sia passato più di un mese dalla giornata della memoria, sono in dovere di raccontare un episodio. Da un diretta testimonianza di un sopravvissuto, l’Inno alla Gioia gli ha salvato la vita! Un prigioniero, suonando con un clarinetto, quello che sarebbe diventato l’Inno europeo, è riuscito a sopravvivere ai campi di concentramento, per il mero fatto che allietava le truppe naziste. Questa melodia ha per questo sopravvissuto un valore incommensurabile. Molti cittadini europei non sanno nemmeno che esista un inno comune per i ventotto paesi, mentre sanno dell’esistenza di una bandiera comune.

Ridurre a suonare quest’inno in occasione delle cerimonie ufficiali delle istituzioni europee, non permette una efficace trasmissione dei valori propri della bandiera a ventotto stelle ai cittadini europei. La mancanza di far risuonare quest’inno al pari di quelli rispettivi di ogni Stato, rappresenta un’enorme buco che, in parte, va a spiegare la mancanza di quel “non sentirsi” europeo e di un senso europeo debole. “Siamo italiani, ma anche europei”. Un concetto che rischia di non essere adeguatamente perpetuato e applicato, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni.

Introduzione sulla crisi della grecia

di Alberto Ghiraldo

Chi ricorda il 4 luglio 2004? Per milioni di greci quel giorno fu probabilmente il più bello degli ultimi 12 anni. La Grecia, infatti, quel giorno vinse l’Europeo di calcio, allenata dal tedesco Otto Rehhagel: una squadra senza alcun talento, ma guidata, con germanica disciplina, all’ordine e alla solidità riuscì in un’impresa eroica battendo sempre avversari più forti e spesso vincendo 1 a 0. Durante i festeggiamenti la folla cantò: «Dio è tedesco» e a “Re Otto”, così ribattezzato l’allenatore, venne offerta la cittadinanza greca e divenne il primo straniero personaggio dell’anno in Grecia. Ora sembra una battuta, ma alcuni commentatori scrissero: «un tedesco ha condotto la Grecia alla conquista dell’Europa attraverso rigore, concretezza e disciplina» e ancora: «ne sfruttò l’enorme ardore patriottico, impartì una formazione quasi militare e li preparò alla conquista dell’equivalente calcistico di Troia».Fu una vittoria eroica. Oggi invece la Grecia ha agitato le cancellerie del mondo, allarmato i mercati e sprofondato nell’incertezza le istituzioni finanziarie, mentre, presto, un nuovo atto de “la tragedia greca” si prefigura alle porte. Tutto ciò è il riflesso della crisi economica che dal 2007 attanaglia la nostra società.

Un paese che vale meno del 2% del Pil dell’intera eurozona come può mettere a soqquadro l’intera comunità europea? Il sistema deve essere ben marcio se basta uno scivolamento della sua propaggine più mediterranea a farlo cedere. Sicuramente la prima parte di questa proposizione sembra assodata, ma sulla seconda forse qualche riflessione di più è d’obbligo. Le ragioni per cui la Democrazia ellenica conta più del suo Pil sono molteplici. In primis culturalmente chiunque ha incrociato la Grecia sui banchi di scuola, inoltre il “marchio Grecia” è rappresentativo di tutta la cultura occidentale; quando Tsipras evoca Sofocle a sostegno della lotta contro i creditori non fa altro che appellarsi a quella che è la potenza della sua etichetta. Lo stesso termine Europa deriva dal greco e negare l’europeità della Grecia è una contraddizione in termini. In seconda istanza dalla carta geografica si realizza che la penisola ellenica è situata tra Balcani e Turchia, tra strutture euroatlantiche e zone di influenza russa, tra cristianità occidentale e ortodossa, tra Mediterraneo centrale e Medio Oriente. In una zona fortemente destabilizzata, con a nord l’Ucraina e il bacino del Mar Nero, a occidente l’Ungheria e i Balcani nel caos immigrazione, mentre a Oriente la Turchia sembra sul punto di essere risucchiata nel vortice mediorientale che gorgoglia intorno alla Siria, dove si scontrano la minaccia Jihadista e la presenza russa, mentre resta sempre vivo lo spettro de l’Intifada in Terra Santa. Nell’altra sponda del Mediterraneo la Libia si surriscalda costantemente e la stabilità dell’Egitto è sempre appesa a un filo. Ma è l’affinità culturale con Mosca la chiave del peso geopolitico di Atene. Lo storico legame, consacrato dalla comune fede religiosa ortodossa, è stato recentemente consolidato da accordi energetici per la commercializzazione del gas russo verso l’Europa.  Quindi durante la più pericolosa crisi russo americana dalla fine della guerra fredda l’amministrazione a stelle e strisce non può permettere lo scivolamento della Grecia (unico paese NATO ad utilizzare armamenti russi) verso le braccia di Putin. Allo stesso modo anche la Cina si è inserita nello scacchiere ellenico acquistando buona parte del porto del Pireo al fine di farne un terminale chiave per la commercializzazione delle proprie merci in Europa. Questo investimento, a maggior ragione dopo il recente allargamento del canale di Suez, permetterebbe di risparmiare settimane di navigazione, ora necessarie alle merci cinesi che vengono stoccate nei porti di Amsterdam e Rotterdam. Quindi le tre principali potenze mondiali hanno interesse alla stabilità della Grecia e a mantenerla nell’Unione europea: gli Stati Uniti per non permetterne l’ingresso nell’orbita di Mosca, la Russia perché alla fine è meglio avere un cugino problematico nella famiglia rivale che doversi accollare tutto il suo debito e la Cina perché altrimenti l’investimento fatto nel Pireo perderebbe senso.

Allora Tsipras ha ragione a descrivere il suo paese come: «cavia di uno scontro che di gran lunga lo sorpassa» riguardando i rapporti di forza in Europa e nel mondo. Rimanendo alla geopolitica è necessario ragionare anche su un diverso livello. La crisi greca palesa il braccio di ferro in corso tra Stati Uniti e Germania, con Washington che non si fida più del suo ex-alleato. La politica estera di Obama si è basata sul subappaltare sicurezza e stabilità delle aree del globo meno problematiche a potenze locali, concentrando l’attenzione diplomatica, militare e politica americana là dove il predominio a stelle e strisce è più insidiato, come nel sud est asiatico. Le deviazioni tedesche dal pensiero d’oltre oceano sono però state molte a cominciare dal non intervento tedesco in Iraq, ai rapporti privilegiati della Germania con la Cina e l’allineamento a posizioni tipiche dei BRICS in Libia. Culminate con scontri aperti come sullo spionaggio del cellulare della Cancelliera, al doppiogiochismo tedesco con la Russia aggirando le sanzioni attraverso triangolazioni bielorusse o cinesi, alla crisi greca e recentemente non possiamo dimenticare lo scandalo  Volkswagen partito proprio dagli USA. Tornando al caso di Atene, Obama si è speso molto per la Grecia sia da un punto di vista mediatico che diplomatico arrivando, attraverso il Fondo monetario internazionale, da sempre strumento di politica economica americana, a imporre un taglio del debito come conditio sine qua non alla partecipazione di quest’ultimo a un nuovo piano di salvataggio.

Tutto questo perché si è vista l’inconciliabilità tra potenza tedesca e stabilità europea:

«l’eurocrisi ha riaperto la questione tedesca. La Germania è insieme troppo e troppo poco influente per assicurare l’equilibrio continentale. Troppo perché il benessere e perfino la sopravvivenza dei singoli stati dell’eurozona – Grecia docet – sono messi in questione dalla geopolitica economica di marca tedesca, dalla “germanizzazione della moneta unica”. Troppo poco perché tale strategia è basata solo sulla protezione dei propri immediati interessi e quindi priva di afflato egemonico. É la differenza fra l’America e la Germania […]. Il protettorato esercitato da Washington sull’Europa occidentale […] poggiava sul vantaggio reciproco, certo assumendo la supremazia a stelle e strisce ma incorporandovi in buona misura le necessità dei paesi protetti […]. La potenza tedesca non protegge nessuno. In senso stretto, perché rinuncia alla deterrenza, rifuggendo all’impiego della forza […] ma soprattutto sul più ampio piano geopolitico e culturale. [..] Visto da Berlino il mondo e l’Europa sono solo mercati da conquistare grazie all’eccellenza dei propri prodotti.»

 

Tratto da Limes N° 7 del 2015, pp. 18-19

La cartina tornasole ellenica ha rivelato una novità decisiva per la fine dell’Euro, almeno come lo conosciamo: la Germania non si pone più come il moderatore d’Europa; infatti non è più collocata politicamente al centro, ma all’estremo. Sono stati infatti i tedeschi a proporre la soluzione più estrema, ovvero un’uscita della Grecia dall’Euro, svelando poi così anche il bluff di Tsipras, dilettante nel presentarsi al negoziato senza un piano B. Schäuble è un convinto europeista, solamente che la sua eurozona non coincide con l’attuale, ma piuttosto a una Mitteleuropa più i paesi nordici, magari con una Francia marginalizzata, difficilmente con l’Italia. Di qui la vigorosa reazione di Hollande, con a ruota Renzi, durante “la notte europea”, a favore di un accordo con la Grecia. Il contraddittorio accordo del 12-13 Luglio esprime tutta l’indecisione degli europei sul loro futuro: da un lato scongiura il fallimento di Atene e la sua uscita dall’euro, dall’altro le misure imposte sono così punitive da spingere la Grecia a una prossima bancarotta o a un’eterna dipendenza dai creditori, almeno fin quando questi avranno voglia di iniettare miliardi a fondo perduto.

L’Unione Europea con la crisi greca ha dimostrato di non essere stata in grado ad avvicinare le economie, ma piuttosto si è dimostrata una gabbia all’interno della quale le economie stesse divergono, le istituzioni si incrinano e le culture confliggono. Insomma è divampata una guerra combattuta per procura dai mercati, dove l’ideologia è la finanza. Senza nulla togliere alla visione di Spinelli, la pace nel Vecchio continente è stata garantita dalla contrapposizione fra i due blocchi, dopo la caduta del muro però anche il mantello americano è venuto meno è lo scontro in Europa è di nuovo divampato tra regole e fatti, rigore luterano e misericordia romano-apostolica, insomma tra nord e sud. L’umiliazione a cui è stato sottoposto il popolo greco dimostra che la discussione intorno a scopi e vincoli della moneta unica ha soffocato ogni ideale europeo.

Neanche la storia però aiuta Atene. Trascurando il primo fallimento di ogni epoca, quando nel IV secolo a.C. tredici città stato non restituirono il denaro imprestato loro dal tempio di Apollo a Delo, nei due secoli scarsi di approssimativa indipendenza, diverse volte la Grecia è stata in bancarotta. 1826, 1843, 1860, 1893 e 1932:

le banche hanno, come al solito, contribuito molto ad attrarre piccoli capitalisti disseminando le credenze più favorevoli circa l’avvenire economico della Grecia e nessun avvertimento dall’alto è venuto ad aprire gli occhi a coloro che si lasciavano in tale guisa ingannare. […] É per notorio che il Governo ellenico non rispetta gl’impegni presi verso i suoi creditori e che i cespiti destinati a sovvenire al servizio degli imprestiti andavano adoperati a scopi totalmente diversi, e per pagare gli interessi del debito pubblico il Governo era costretto a ricorrere ad espedienti di ogni sorta risultanti sempre in ulteriori aumenti delle passività dello Stato.

 

Archivio storico diplomatico del ministero degli Affari esteri, serie Politica P, busta 449, dal Principe di Cariati al Ministro Brin, n. 926/320, Atene, 9/11/1983. Citata in Limes N° 7 del 2015, p. 15

 

Così il Principe di Cariati, diplomatico italiano, inviava da Atene il 9 novembre 1893, al ministro degli Esteri Benedetto Brin.  Tutte queste crisi finanziarie furono superate con la sovranità monetaria.

Quindi nel dopoguerra arrivò il piano Marshall che portò l’iniezione di enormi capitali e nel 1974 tornò la democrazia con la fine del regime dei colonnelli. Fu l’epoca di Kostantinos Karamanlis, fondatore di Nea-demokratia, che portò il paese nell’UE e nella NATO, mentre il PASOK di Andreas Papandreou riteneva che l’adesione:

avrebbe consolidato il ruolo marginale del paese come satellite del sistema capitalistico, minacciando gravemente l’industria greca e comportando il rischio della scomparsa dei contadini.

 

Tratto da Limes N° 7 del 2015, p. 6

Nei decenni seguenti le difficoltà economiche continuarono, fino ancora agli anni 90 quando venne partorito l’euro. Nel 1999 la Grecia ne restò fuori, ma il 2 febbraio 2001 divenne il dodicesimo membro della moneta unica. Già allora alcuni economisti si chiedevano come un paese con quelle finanze, con un nepotismo insito nella politica, dove 800 famiglie controllano il novanta per cento della ricchezza, potesse entrare nell’Euro. L’Unione invece si adeguò, finanziando il favoritismo. Attraverso l’euro i mercati finanziari hanno concesso prestiti come se non ci fosse un domani, mentre i governanti ignoravano le regole della moneta unica. Invece i motivi che spinsero la Grecia in Europa furono essenzialmente politici e di sicurezza, ovvero la necessità di avere un saldo ancoraggio all’Europa e alla NATO di fronte alla minaccia turca, visto che l’alleanza con gli Stati Uniti, in questo caso, non poteva essere sufficiente.  Così i parametri di Maastricht vennero ignorati, e Kostas Simtis stipulò un accordo segreto con Goldman Sachs al fine di trasformare buona parte del debito in swap. Forse i suoi successori avrebbero potuto ancora porre qualche rimedio, ma governare in modo clientelare e con la spesa pubblica era l’unico metodo conosciuto. Intanto la governance economica tedesca dell’Unione guardava, ma più di tanto non protestava, d’altronde la Grecia era un grande importatore. Curioso invece è che questa tecnica truffaldina attraverso la quale Atene aderì alla moneta unica, benché nota dal 2000, venne ricordata solo allo scoppio della crisi del debito ellenico, nonostante tutti i paesi abbiano aggiustato, più o meno, il proprio bilancio al momento dell’adesione, ad eccezione di Olanda e Lussemburgo.

Nel frattempo un altro Karamanlis e un altro Papandreou, nipote e figlio, dei leader storici, avevano accompagnato il paese nel baratro, mentre le Olimpiadi del 2004 si rivelarono solamente un’altra occasione per contrarre nuovi debiti senza un ritorno sottoforma di investimenti. Nel 2008-2009 la caduta del Pil fu però paragonabile a quella di Italia e Germania: sembrava che la Grecia potesse superare la prima recessione come tutti. Dal 2010 invece l’imposizione di politiche recessive causò la caduta del 25% del prodotto interno lordo. I piani di aiuti non andavano al popolo, ma servivano per coprire l’esposizione delle banche francesi e tedesche.

Quando Tsipras fu eletto nel gennaio del 2015 si trovò sul fronte di un’altra battaglia, questa volta economica, combattuta nell’Ellade. Ovvero lo scontro tra ortodossia neoliberista, matrigna dell’austerità e politiche più espansive d’ispirazione neo-keynesiana. Fin da subito fu chiaro che i creditori e l’Europa non erano disposti ad ammorbidire le loro pretese solo perchè i greci avevano votato un partito contrario all’austerità. In primis per non incrinare il dogma dominante dell’austerità stessa, in secondo luogo per lanciare un messaggio ai paesi periferici d’Europa su cosa sarebbe potuto accadere loro se avessero portato al governo movimenti contrari al pensiero unico europeo. Da un lato Tsipras e i suoi ministri, convinti in un compromesso possibile, cercavano di rassicurare sull’imminenza dell’accordo. Dall’altro la controparte non arretrava lasciando il paese nell’incertezza e cercando di strangolarlo finanziariamente, provocando la fuga dei capitali. Il senso degli ultimatum è sempre stato lo stesso, ovvero costringere Tsipras a sporcarsi le mani di sangue per spingerlo a cambiare maggioranza. Per uscire da questa pressione egli indisse un referendum dove il no, seppur non risolutivo, stravinse. Ciò accadde, nonostante la sovranità popolare in Europa venga costantemente umiliata, per l’orgoglio di un popolo, per cui epica, eroismo e rifiuto alla sottomissione s’incendiano quando si è sull’orlo del baratro. Emblematico è in questo senso che la festa nazionale greca sia il 28 ottobre, in memoria del rifiuto all’ultimatum italiano nel 1940. Pare proprio che l’Europa non abbia capito nulla della Grecia.

 

Més que un Club? Il caso della catalogna

movimenti separatisti in europa

di Guizzardi Jacopo

No, non stiamo parlando del Barcellona ma delle recenti elezioni regionali della Catalogna. Il Governo centrale, preoccupato dal possibile esito delle consultazioni, ha usato anche il mondo dello sport per cercare di convincere gli elettori

 

Alle ultime elezioni regionali spagnole, per dimostrare che i catalani necessitano di una loro indipendenza da Madrid e dalla corona spagnola, il fronte indipendentista ha deciso di creare una lista unica.

Dopo un lungo weekend in attesa dell’esito del voto, in ogni giornale o quotidiano europeo si è palesata la vittoria degli secessionisti » Read more

Non siamo (più) una realtà industrializzata dell’UE

di Giovanni Simonato

Quando si parla di Blue Banana ci si riferisce all’area economicamente più sviluppata e più importante d’Europa che per molti anni, grazie alla sua conformazione, ha assunto proprio la forma del frutto in questione.

Fino al 2013 quest’area collegava la zona della “Grande Londra”, il Benelux e la Baviera, terminando nel Nord Italia capitanato da Milano. Si può dire quindi che l’Italia avesse un enorme vantaggio grazie al“rapporto diretto” con la zona economicamente più sviluppata d’Europa. » Read more

Euclides Tsakalotos: ecco chi è il nuovo ministro dell’Economia della Grecia

Euclides Tsakalosos, neo ministro dell'economia greco

di Francesco De Palo da ilfattoquotidiano.it

Nato in Olanda a Rotterdam nel 1960, ha frequentato il prestigioso college londinese di St. Paul, poi si è laureato all’università di Oxford. Il ‘britannico’ ha di fatto commissariato negli ultimi de mesi Varoufakis in occasione dei vertici comunitari. Comunista, in Syriza da dieci anni, carattere non accomodante ma dai modi meno bruschi del suo predecessore: è il nome scelto da Tsipras per ‘parlare’ con l’Europa

Dal Minotauro alla bombetta inglese. Non usa moto né t-shirt il nuovo ministro delle finanze ellenico scelto al posto del forzosamente dimissionario Yanis Varoufakis. Euclide Tsakalotos, già portavoce economico del governo Tsipras, di fatto è ministro ombra da due mesi a questa parte. Erano i giorni dello scontro aspro tra Atene e i creditori internazionali, con la stretta di mano tra Djsselbloem e l’allievo di Galbright che segnò un solco incolmabile tra i due, quando il premier “commissariò” in qualche modo Varoufakis affiancandogli lo stesso Tsakalotos e il vice premier Dragasakis in occasione dei vertici comunitari (ottenendo il plauso del Guardian, tra gli altri).

Nato in Olanda a Rotterdam nel 1960, Tsakalotos ha frequentato il prestigioso college londinese di St. Paul, poi si è laureato all’università di Oxford in seguito si è specializzato presso l’Università del Sussex. Di formazione molto anglosassone – ha sposato l’economista inglese Heather D. Gibson – ha insegnato presso le Università di Kent e di Atene. Il battesimo politico risale al 2012, quando Syriza balzò dal 4% al 23% sorprendendo tutti. Nelle doppie elezioni di quell’anno Tsakalotos centrò il seggio parlamentare per poi essere promosso a componente del Comitato centrale di Syriza, in un partito che rispetta ancora il mantra degli organismi collegiali e decisionali. Infatti da due lustri milita in Syriza, sin dai tempi in cui il movimento si chiamava Synasprismos e Tsipras lo scorso gennaio lo ha premiato con un incarico di sottosegretario agli Esteri a cui ha sommato quello di capo dei negoziatori che trattano con l’Europa.

Tsakalotos ha scritto, a quattro mani con altri collegi, sei libri compreso Crucible of Resistance: Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis, in cui attacca il binomio crisi greca-mancanza di riforme. In quelle pagine vergate nel 2012 punta l’indice contro la deriva liberista che ha invaso la Grecia sin dal 2008, che ha prodotto le attuali diseguaglianze sociali accanto al panorama che tutti conosciamo. Ora ha la possibilità di applicarvi le sue ricette anche grazie al suo carattere, raffinato ma non accomodante.

Come anticipato nei giorni scorsi, pare che sulla nuova nomina pesino i consigli a Tsipras del ministro dell’informazione Nikos Pappas, molto ascoltato dall’ingegnere 40enne, allergico ai modi di Varoufakis poco incline a prepararsi una futura rielezione e più propenso ad essere rappresentato a Bruxelles dal diplomaticissimo Tsakalotos. Quest’ultimo si è sempre detto un europeista convinto ma senza peccare di morbidezza verso Bruxelles come i predecessori Hardouvellis e Stournaras. Pappas avrebbe avuto un’ultima discussione con Varoufakis proprio in occasione del vertice governativo di emergenza convocato due giorni prima del referendum, convincendo il suo premier alla decisione che, però, alcuni vorrebbero fosse dipesa interamente da Berlino e non dal fronte interno. Più probabilmente Tsipras potrebbe essere stato costretto a mediare tra due richieste giunte sulla sua scrivania, sostengono altri rumors. Per cui ha scelto l’unica strada possibile, dopo la vittoria referendaria. E nessuno sa se sia la migliore.

 

(Immagine Euclides Tsakalotos, Fonte: ilfattoquotidiano.it

Varoufakis si dimette: contrasti interni a Syriza e pressioni dell’Eurogruppo alla base dell’addio del ministro del Tesoro

di Francesco de Palo da ilfattoquotidiano.it

Gli hanno dato del giocatore d’azzardo, pagliaccio e pokerista e non solo dalle parti di Francoforte, a testimoniare una personalità comunque narcisista e protagonista, ma che ha avuto il merito di smuovere le acque di un memoradum che in tre anni non ha sortito effetto alcuno, se non peggiorare la situazione per tutti: creditori e debitori. Ora se ne va, su richiesta dello stesso Tsipras. Theodorakis, fondatore del partito Potami, in pole per il ruolo di coordinatore pro troika delle opposizioni

Grexit? No, Varoufexit. Passo indietro dell’artefice del muro contro muro, un premier con maggior potere decisionale (anche all’interno del suo partito), che ferma (definitivamente?) le velleità dei “montiani ellenici” e che oggi guarderà negli occhi chi era già pronto a un governo di larghe intese: il capo dello Stato Procopios Pavlopoulos, filomerkeliano a cui Alexis Tsipras ha chiesto di convocare i leader di tutti i partiti del Paese. Non è il Grexit il primo effetto della vittoria del no al referendum di ieri, ma le dimissioni di chi, dallo scranno più alto del ministero delle Finanze, aveva decretato tempi e modi di una trattativa apparsa subito complicatissima. Yanis Varoufakis lascia il ministero delle Finanze su richiesta dello stesso premier.

E in una nota spiega di essere diventato, poco dopo l’annuncio dei risultati del referendum, “noto ai partecipanti dell’Eurogruppo e altri partner, che apprezzeranno la mia assenza alle future riunioni”. Negli ultimi giorni erano fuoriuscite alcune informazioni circa posizioni diverse all’interno di Syriza sull’estroso allievo di James Galbright. Qualcuno aveva addirittura parlato di furiose liti con il vicepremier Iannis Dragasakis e con il ministro dell’informazione Nikos Pappas, ma nulla di ufficiale. Erano le ore in cui nel partito del premier c’era chi chiedeva la testa di Varoufakis per poter riallacciare i contatti con i creditori internazionali, choccati dai modi dell’economista.

Negli occhi dei greci ci sono ancora le immagini della prima visita ad Atene, nel gennaio scorso, del capo dell’Eurogruppo Djisselbloem e di quelle parole che proprio Varoufakis gli sussurrò all’orecchio con un sorriso beffardo. L’olandese prima gli strinse la mano poi, di ghiaccio, la lasciò per abbandonare in fretta la conferenza stampa, mentre i fotografi immortalavano questa immagine surreale. E’quello il primo momento di rottura con l’ex troika che segna anche un solco nei rapporti tra Atene e Bruxelles e che, di fatto, diventa il ritornello delle trattative degli ultimi mesi. Gli hanno dato del giocatore d’azzardo, pagliaccio e pokerista e non solo dalle parti di Francoforte, a testimoniare una personalità comunque narcisista e protagonista, ma che ha avuto il merito di smuovere le acque di un memoradum che in tre anni non ha sortito effetto alcuno, se non peggiorare la situazione per tutti: creditori e debitori.

Poche ore prima c’ era stato un altro passo indietro, quello dell’ex premier conservatore Antonis Samaras. Il numero uno di Nea Dimokratia, protagonista nel 2012 del governissimo che firmò il memorandum ribattezzato “di larghe intese con la troika” si era speso fino all’ultimo istante per il sì. Ma negli occhi dei cittadini ellenici Samaras incarnava la stretta di mano con la cancelliera Merkel, ovvero tre tagli a pensioni, stipendi e indennità, un regime di austerità e di sacrifici che, seppur portato avanti nel nome del futuro della Grecia, non trovava più consensi nell’Egeo. Si dice che il giornalista Stavros Theodorakis, fondatore del partito Potami, possa diventare il coordinatore pro troika delle opposizioni: è giovane come Tsipras, anche lui senza cravatta e nell’immaginario collettivo potrebbe essere l’unica alternativa al 40enne ingegnere in caso di elezioni anticipate. Ma oggi sono scenari che passano in secondo piano. Il Paese e l’Europa si interrogano sulla scelta (un baratto?) del ministro senza scorta e che arrivava ai vertici in sella alla sua moto. Qualcuno a Berlino avrà applaudito.

Whatever it takes – Tutto il necessario (per salvare l’UE)

di Matteo Gaspari

“The ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough” con queste parole Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, ha voluto mandare un segnale e un avvertimento ai mercati. Era il 26 luglio 2012, lo spread italiano a inizio seduta viaggiava attorno ai 520 punti base. Sono bastate poche parole del presidente della BCE per far scendere lo spread a 473 punti e per far guadagnare alla borsa il 5,62%.  » Read more

Altro che Russia: l’incognita (e il pericolo) è la Cina

di Dario Rivolta* da notiziegeopolitiche.net

Ci sono avvenimenti nella politica internazionale che sembrano così irrazionali da far persino dubitare, a chi li osserva, che accadano veramente. Comunemente si pensa che sia legittimo per ogni Stato perseguire i propri interessi e, anche quando le azioni compiute da un altro non ci piacciono o non ci convengono, siamo portati a spiegarcele secondo la logica della ricerca del proprio profitto. Qualche volta, tuttavia, sembrano così irrazionali da far supporre che nascondano obiettivi meno evidenti o addirittura inconfessabili. » Read more