L’esodo da Pola

Un genocidio che il nostro popolo ha subito perchè venivano uccisi solo perchè italiani,,,o costretti all’esilio per ragioni etniche…tragedia per troppi anni dimenticata e rifiutata dalla sinistra che pensa(va) di perdere credito e dava più valore all’internazionale comunista che alla tragedia di molti italiani.

 

Una delle vicende più drammatiche della “questione istriana” fu l’esodo da Pola, città abitata quasi interamente da italiani, il cui destino restò sospeso per anni durante le trattative di pace. In questo breve testo si riportano alcune testimonianze di quel periodo tratte dal libro “L’esodo” di Arrigo Petacco, a cui si rimanda anche per un approfondimento su questi fatti.

Pola, febbraio 1947. In questi giorni chi arriva a Pola si trova di fronte a uno spettacolo che lascia perplessi

scriveva Tommaso Besozzi in una magistrale corrispondenza dall’Istria per «L’Europeo»:

Ovunque i segni della partenza, e che sia essa quasi totale non c’è dubbio. Trentamila su trentaquattromila avevano chiesto di essere trasferiti nella penisola e trentamila abbandoneranno realmente le loro case prima che Pola sia consegnata ai soldati di Tito. Lungo le banchine, da Scoglio Ulivi fin quasi all’Arsenale, si levano cataste di mobili. La neve li ha coperti. Alla stazione ferroviaria attendono altre montagne di masserizie. Si cammina per le strade di Pola; tutte le case rintronano di martellate.

Giorno per giorno le case di Pola si svuotano. Gli italiani se ne vanno nella proporzione di diciannove su venti. Giorno per giorno dalla periferia avanzano gli slavi: quelli residenti da anni nei sobborghi e quelli che continuamente filtrano attraverso la «linea». Vanno ad occupare gli alloggi migliori al centro e attorno al porto… «L’Arena di Pola» continua ad essere stampata ogni giorno, ma da un pezzo vi si leggono solo le notizie dell’esodo. Pubblica ogni giorno due colonne di partecipazioni di matrimonio (i fidanzati vogliono sposarsi a Pola prima di partire) e quattro o cinque colonne fitte di annunci economici («Disponibile mezzo vagone da Ancona a Terni», «L’ufficio del rag. Tizio lo troverete da oggi in via Caio a Vicenza», «Corda e chiodi urgono» ripetuto cento volte come un’invocazione di soccorso. «Si cerca un magazzino a Marghera», «Domestica polesana si offre a polesano che si rechi a Spoleto…»). La vecchia cieca che chiedeva l’elemosina sui gradini del duomo ha pubblicato anche lei un annuncio: ringrazia e saluta tutti; se le lasciano i lumini li accenderà; imparerà a distinguere le tombe come ha imparato a orizzontarsi senza guida per le vie di Pola…

 

 

 

 

 

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Dal nostro inviato Indro Montanelli

Tutto questo accadeva a Pola nel febbraio del 1947 sotto gli occhi del generale inglese Robert W. De Winton, governatore uscente della città, dopo che la firma del Trattato di pace l’aveva assegnata agli jugoslavi. «Ciò che più indigna» scriveva Indro Montanelli, testimone oculare dell’esodo degli italiani dall’Istria «non è tanto l’abbandono di Pola quanto il modo in cui viene eseguito; in uno stillicidio di morti, nella continua insicurezza delle persone, in una ragnatela di difficoltà per i nostri e di condiscendenza per gli altri: tutto per “sdrammatizzare”, tutto per negare che esista un problema polesano. Ma i quattro caduti di ieri» continua Indro Montanelli «ma il partigiano maciullato che agonizza nell’infermeria del Toscana, ma questa gente fra cui mi trovo che gremisce i ponti e la stiva, queste mamme dal volto incorniciato in lunghe pezzuole nere che stringono al seno bambini lattanti avvolti in fazzoletti tricolori non c’è tentativo di propaganda che basti a “sdrammatizzarli”.»

 

Nella sua indignata corrispondenza, Montanelli non esita a polemizzare anche con coloro che in quei giorni, in Italia, tentavano di mascherare la «pulizia etnica» attuata spregiudicatamente dai titini con la teoria diffusa ad arte secondo la quale l’esodo era espressione dei ricchi borghesi e dei fascisti che fuggivano dal comunismo. Confessa il giornalista: Anche io avevo avuto il dubbio, in un primo momento, che questo timore fosse retaggio soltanto di una certa classe, spaventata all’idea di venire sottoposta a un determinato regime sociale e in grado di sostentarsi anche fuori del proprio paese. Mi ingannavo. Per il 95 per cento questi esuli sono dei poveri diavoli e le loro masserizie ne denunciano la miseria. Ammassate in lunghi capannoni alla Scomenzera e alla Giudecca, lunghe teorie di materassi sdruciti, di cassettoni traballanti, di letti sgangherati, di sedie e di tavoli zoppi, di gabbiuzze con canarini spauriti, di cagnetti bastardi legati con uno spago documentano l’origine proletaria dei loro proprietari. Il comunismo e l’anticomunismo non c’entrano. Non fuggono i contadini perché sono anticomunisti, non fuggono gli operai e gli artigiani, non fugge il comunismo chi non ha nulla da perdere. L’unico italiano di Pola (persino due pazzi: un maschio e una femmina, hanno voluto fuggire) che aveva mostrato intenzione di rimanere, è un professore comunista che, subito dopo la liberazione, fondò un circolo di cultura italo-slavo puntando sulla carta della fraternizzazione. Ieri ha chiesto anche lui di imbarcarsi. Lo aveva chiesto anche il sindaco italiano e comunista di un paesetto vicino, di nome Facchinetti, ma non ha fatto in tempo: una pallottola lo ha freddato mentre preparava i bagagli.

Si portano via anche i morti

Mentre Roma continuava a tergiversare, a Pola furono aperti gli uffici per l’evacuazione, distribuiti i certificati di profughi e noleggiati alcuni velieri per il trasporto delle masserizie. Le quali, secondo le disposizioni degli organizzatori, dovevano essere accatastate sui moli per essere spedite in Italia prima dei loro legittimi proprietari. In quei giorni, l’intera città si trasformò in un’immensa

falegnameria. Ogni casa rintronava di martellate. Assi, casse, cartoni diventarono merce preziosa per gli imballaggi. Soprattutto mancavano i chiodi, come abbiamo già visto, che furono razionati (tre etti per famiglia). Non esistendo i limiti imposti dagli jugoslavi nella zona «B», i polesani cercarono di portarsi via tutte le loro cose. Molti si recarono al cimitero per disseppellire i loro morti e portarsi via le ossa. Quasi tutti staccarono un pezzetto di pietra dall’Arena per conservare un ricordo simbolico della loro città. Fu «imballata» anche la salma dell’eroe Nazario Sauro per trasferirla a Venezia.

Tutto ciò accadeva nei giorni delle feste di Natale e quello fu certamente il più triste Natale della gente di Pola. Accatastate le masserizie lungo gli scali, cessata ogni attività lavorativa, venuta meno ogni possibilità di procurarsi generi di conforto, la popolazione viveva accampata nelle proprie case vuote in attesa di potersi imbarcare sulle navi che il governo di Roma avrebbe dovuto inviare. Anche la stagione si accanì contro i partenti. I trasporti delle cose e delle persone furono fatti sotto la tormenta di neve o sotto piogge interminabili che sfasciarono molte delle masserizie ammucchiate lungo le rive.

Nel loro bel libro scritto a quattro mani, Nelida racconta ad Anna Maria:

Ricordo il suono dei martelli che battevano sui chiodi, il camion che trasportava la camera da letto di zia Regina al molo Carbon, avanzando tra edifici mortalmente pallidi di paura, e tutti gli imballaggi che si infradiciavano nella neve e nella pioggia. La grande nave partiva due volte al mese, dai camini il fumo saliva al cielo come incenso e insinuava negli animi il tormento sottile dell’incertezza e l’ombra dell’inquietudine; ognuno si sentiva sempre più depresso dall’aria di disgrazia che aleggiava sugli amici che si incontravano per strada.

Via via il Toscana aveva infornato tutti i polesani: le famiglie bene, molti professionisti, il farmacista, l’ufficiale che ha sposato la cecoslovacca, il dentista che ha sposato l’ungherese, il cantante che ha sposato la slovena, il professore d’inglese che ha sposato l’italiana, la vedova di un ebreo, la bella Vanda che riceveva i soldati americani, lo scroccone di sigarette americane, l’ubriacone che, caldo della grappa in corpo, scioglieva la neve dove cadeva disteso, il vecchio suonatore di rimonica seguito dal suo bastardino, le sorelle Antoni che imbarcavano anche il padre moribondo, pur non potendo ragionevolmente pensare che il vecchio sarebbe tornato come speravano per se stesse, e neppure avrebbe raggiunto la destinazione che si erano proposte. Era partito anche il parroco di Gallesano, trascinandosi dietro un cassone pieno dei testi più amati, Sant’Agostino, Santa Teresa, e annunciando la fine del mondo per la domenica seguente. […] Partì il mondo dei mille mestieri, l’operaio e l’artigiano, il contadino e la tabacchina, l’ortolano, il bandaio, il carraio, l’impagliatore, il bottaio, il fornaio, il muratore, il veterinario: partirono gli operai di fabbrica, i fonditori, i fabbri, i meccanici della K. und K. Marine Arsenal, i motoristi e i tornitori di Scoglio Ulivi, i falegnami e i calzolai, lo stagnino, la rammendatrice, il pastaio, il barbiere, i garzoni di bottega, i pescatori con odore di salsedine, di ostriche e di alghe, i minuti artigiani di ogni cosa, dal vino ai mattoni, dal sego ai vetri, dai cappelli ai nastri, dalle paste alimentari al saldame, dalle barche ai libri, dall’opera lirica ai giornali. Partirono i padri dei ragazzi partigiani e poi anche gli ex partigiani. Invano avevano cercato di far fronte a una civiltà incomprensibile.

Che cosa avevano fatto per meritarsi quel mondo in cui sentivano di non avere alcuna possibilità di condurre una vita piena, realmente umana?

 

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